Il passaggio era stretto, lo
avevamo detto; era la cruna dell’ago più stretta della vita repubblicana degli
ultimi vent’anni o forse più. La rielezione di Giorgio Napolitano ridà
tranquillità ad uno scenario politico-istituzionale arrivato sull’orlo della
crisi di nervi. A fare le spese della surreale impasse determinatasi è stato il
Pd, che, nell’intento di seguire il doppio binario su cui aveva pensato di
mettere la risoluzione della questione istituzionale e di quella di governo,
non è riuscito nel compito e appare oggi come un convoglio deragliato.
Quello che è successo è grave,
anche perché proprio la situazione richiedeva da parte di tutti un di più di
responsabilità che invece non c’è stato, determinando così non solo le dimissioni
di Bersani e il discredito di tutto il gruppo parlamentare del partito di
maggioranza relativa, ma mettendo seriamente a rischio la tenuta stessa del
progetto politico del Pd. Non essere riusciti ad eleggere prima il nome di
Marini, sul quale si era registrata un’ampia convergenza delle forze
rappresentate in Parlamento, e poi il nome di Prodi, unanimemente acclamato
dall’assemblea dei grandi elettori del centrosinistra, ha dato più che
l’impressione che il Pd stava facendo il suo Congresso, mentre eleggeva il
Presidente della Repubblica, nel più completo disinteresse per la situazione
reale del Paese, che è altra cosa dalle frequentazioni sui social media.
Come è potuto accadere tutto ciò?
Dopotutto il Pd era l’unico partito rimasto in piedi in un panorama politico
devastato, quello che aveva l’ambizione di ricostruire il sistema politico e il
sistema-paese e quello a cui si guardava da più parti come al punto di
riferimento dell’evoluzione della vicenda politica italiana, tra l’altro
potendo contare su numeri indispensabili per qualsiasi soluzione alle questioni
aperte sul piano istituzionale e sociale.
C’è sicuramente chi è contento di
quanto è avvenuto: il centrodestra che si ridà la patente di forza
responsabile, Grillo che è riuscito a destabilizzare il principale nemico che
sogna di abbattere definitivamente, Vendola che spera di lucrare sulle spoglie
della sinistra e Monti che si gode in solitudine un malinconico “io c’ero”.
Ma la domanda richiede una
risposta urgente, anche per capire da dove è possibile ripartire, al di là
dell’ennesima conta interna che il Pd ormai consuma dalla sua nascita al ritmo
di una semestrale di cassa.
Si è richiamata l’assenza di una
comune cultura politica e la “fusione fredda” da cui il Pd è nato. Cose
sicuramente da dibattere e approfondire, ma io credo che la ragione più
semplice vada ricercata in una sorta di “analfabetismo politico”, più o meno di
ritorno. Come spiegarsi altrimenti l’assenza di minima disciplina
nell’atteggiamento dei gruppi parlamentari o il comportamento dello sfidante
perdente del segretario dimissionario, che, in un momento topico della vita
della Repubblica e di fronte alla complessità delle soluzioni da dare alle
istituzioni democratiche e al Paese, ingaggia in ogni dove l’ultimo duello, incurante
degli effetti che le entrate a gamba tesa cui abbiamo assistito potessero
produrre. Tra l’altro senza portare a casa nulla di quanto da lui proposto.
Come darsi una ragione del fatto
che ogni convergenza, compromesso e mediazione vengano ormai apostrofati come
“inciucio” da rigettare con sdegno, quando la politica da sempre è conflitto e
mediazione. Come spiegarsi la perdita di qualsiasi autonomia della politica per
inseguire, rispetto ad ogni decisione d’assumere, gli umori irrazionali del web. Come giustificare il fatto che si
aderisce ad un partito e non si rispettano i fondamentali dello stare insieme
in una comunità organizzata. Come riuscire a capire i termini delle questioni, se,
invece di discuterne il merito, ogni volta si chiede preliminarmente se l’ha
detta tizio o caio, quanti hanni ha o da quanti siede in Parlamento.
Dirigenti sperimentati li abbiamo
mandati a casa, ma le classi dirigenti non s’improvvisano. E non basterà la
palingenesi generazionale, perché la credibilità si costruisce negli anni e si
può perdere in un istante. Oggi il Pd ha di fronte tre questioni da affrontare
in tempi celeri: un governo di larghe intese, sì di larghe intese; un Congresso
anticipato, di “rifondazione”; ma soprattutto ritrovare l’A, B, C della politica,
senza alcuna subalternità se non ai propri valori.
Daniele Salvi
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Daniele Salvi il 21/4/2013 alle 15:35 | |